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Râga: un attaccamento disastroso

Attaccamento alla soddisfazione dei propri desideri, ma anche a quanto ci fa sentire vivi e attivi

Râga: un attaccamento disastroso
06 novembre 2008

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Glossario sanscrito

Addentrandosi nella foresta oscura della mente ci si imbatte talvolta in qualche doloroso spettacolo cui sovente non si riesce nemmeno a dare un nome, un'origine, un senso: sappiamo solo che si può manifestare tramite una morsa allo stomaco o un'oppressione al cuore che ne sconvolge il ritmo, oppure come un sentimento di rabbiosa impotenza, di smarrimento.

Improvvisamente la sicurezza, la fiducia in sé stessi viene meno, lasciandoci soli e oppressi dalla percezione della nostra «nullità».

Questi pensieri, che hanno solide radici abbarbicate nelle profondità del sensibilissimo sistema nervoso umano, si nutrono di illusioni e di vane speranze e, quando la mente è abbandonata a sé stessa, di fantasie prive di costrutto.

Qual è il «mostro» che provoca una reazione tanto forte e distruttiva? E' râga - l'attaccamento: alla passione, al piacere, alla soddisfazione dei propri desideri, ma anche, visto dalla parte opposta, a quell'esperienza gratificante che ci fa sentire vivi e attivi.

Râga, in questo senso, è la frustrazione di non poter replicare all'infinito quelle particolari condizioni che, in momenti precedenti, ci hanno tanto appagati.

E' un piacere anche fare 200 chilometri per andare a mangiare in un particolare ristorante; che rabbia scoprire, dopo tanta strada, che nel frattempo il ristorante ha cambiato gestione e la cucina non è più così buona.

Che emozione indicibile incontrare quella giovane donna che, unica tra milioni di altre donne, scatena una tempesta emozionale, una sete di intimità, un bisogno di comunicarsi sempre, in ogni modo, l'un l'altro, le mille novità dell'amore/passione, affinché quel piacere non si debba smarrire nelle strade impervie della Vita.

Siamo disposti persino ad arrivare davanti a un prete, per giurare di stare insieme «fino a che morte non ci divida» per poi, tempo pochi mesi, qualche anno al massimo, essere incapaci di superare l'amara scoperta dei difetti dell'amata. Che, nel frattempo, sembra diventata insopportabile. Lei che era l'unica, la sola.

Ma di chi è la colpa? Non è forse la «maledizione del sentimento del possesso», come diceva una mia saggia amica a proposito delle fatiche gestionali delle sue molte ville da miliardaria? Era dunque tutto questo suo correre dal mare alla montagna, da Parigi a Londra per verificare la condotta della servitù, le condizioni del tetto sfondato da una valanga, che le impediva di essere attenta al suo percorso spirituale, presente alle lezioni, sobriamente libera dai pensieri e contenuta nelle emozioni.

E che dire del piacere di accumulare denaro o cariche pubbliche che aumentano il prestigio sociale se poi ci si dimentica, letteralmente, o addirittura volutamente si ignora la realtà della propria autentica origine divina?

Si potrebbe obbiettare che tutto questo è logico, è la vita stessa; se mancano il desiderio, la passione, la curiosità, a che cosa ci si può attaccare?

Su questo occorre soffermarsi e riflettere poiché la parola stessa «attaccamento» ricorda una colla, ma di quelle forti, che tengono assieme anche i pezzi più malridotti e scompagnati.

Non a tutti infatti è così chiaro di essere fondamentalmente l'unione di spirito e materia. Ma anche a coloro a cui succede di cogliere uno sprazzo di spiritualità negli aspetti più triviali del quotidiano raramente viene da pensare veramente a quello che alcuni grandi scienziati hanno compreso, sancito e affermato soprattutto negli ultimi 400 anni: che noi tutti siamo Dio. Non un'emanazione, né una replica, ma realmente Dio.

Questa presa di coscienza, soprattutto da parte di chi pratica yoga, dovrebbe costituire la base di uno stile di vita e di pensiero completamente innovativo, pacifico e pacifista.

Pensare di essere spirito semplicemente perché partecipiamo ogni tanto a qualche rito religioso o materia perché abbiamo fame e mangiamo significa limitare in maniera assurda il senso della propria esistenza.

Anche chi conosce il significato della parola karma, spesso segna un confine tra «buon karma» e «karma cattivo», quando in realtà la questione è ben più complessa.

Non saper cogliere il significato di quegli accadimenti che disegnano la trama e l'ordito di una vita tutta personale (purusha - coscienza - e prakriti - forza della materia - nella loro inscindibile peculiarità) rappresenta un freno potente sul piano evolutivo.

E, d'altra parte, se da millenni tutte le chiese si danno un gran daffare per nascondere la verità, come può un individuo pensare ragionevolmente di essere Dio?

Se la discriminazione (viveka) non opera costantemente alla distruzione dell'ignoranza e dell'illusione e non si oppone alla forza di râga, questa prende il sopravvento nella complessa struttura della mente e genera ogni sorta di attaccamento.

Ma, pensiamo, persino la forza avvolgente di uno splendido rampicante può compromettere la solida struttura di un palazzo. Eppure, un rampicante che disegna colorate spirali sui muri di una casa, a primavera, è un bellissimo spettacolo.

Cosa fare dunque? La grandezza sublime dello Yoga ha previsto tutto e per ogni problema ha trovato una soluzione esatta e scientifica.

«Neti neti»: una breve locuzione che ognuno può ricordare perfettamente, come un mantra, e che racchiude la sapienza discriminante di chi ha visto tutto e ha percorso tutte le strade.

«Neti Neti» ovvero «non è questo, non è quello». Avendo stabilito a priori i nostri obiettivi spirituali con sufficiente chiarezza e onestà, ci sarà abbastanza facile, nel tempo, individuare nella folla eterogenea e disordinata dei pensieri che assediano senza sosta la nostra mente, quelli che meritano accoglienza, accudimento e concentrazione e quelli che, invece, vanno scartati senza indugio in quanto molesti, noiosi, invadenti nelle loro esigenze senza costrutto.

Si tratta di una ginnastica difficile, soprattutto all'inizio, quando le passioni predominano sul pensiero.

Ogni volta, di fronte e una scelta, bisognerebbe chiedersi: ha valore questa opzione per la mia realizzazione? In assenza di un sì deciso, senza dubbi né perplessità, verrà spontaneo ripetersi mentalmente: «neti, neti», «non è questo ciò che mi serve e non è nemmeno quello».

Così si cresce, così ci si abitua agli accadimenti che il karma ha in serbo per noi, così si conquista la propria morte in una visione gloriosa e coerente con la vita vissuta.

di Lisetta Landoni

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